Base Joshua Tree chiama fandom, ripeto Joshua Tree chiama fandom. Abbiamo avvistato sei figuri che sembrano corrispondere alle persone che state cercando. Hanno strani soprannomi e abbiamo dovuto chiamare rinforzi per farli smettere di suonare. Dicevano di essere passati per Londra e il Giappone e di essere diretti a sud. Se può aiutarvi, le uniche parole che siamo riusciti a strappargli nella nostra lingua sono state Kitchen Groove.

Qui base fandom, ricevuto Joshua Tree. Ottimo lavoro, abbiamo tutte le informazioni per credere di aver ritrovato i Negrita. Dobbiamo fermarli prima che raggiungano il Messico…

Dov’erano quindi fuggiti i Negrita alla fine del tour di supporto a 9? E cosa diavolo era questo Kitchen Groove? Questa volta, Pau, Mac, Drigo, il Ghando, Giacomo e Cristiano avevano fatto davvero le cose in grande. E Barbacci, come sempre, ne era stato complice. Erano stati fotografati con la Union Jack in pub malfamati di Camden Town, in kimono su tavoli che avevano visto passare generazioni di samurai e, infine, accampati nel deserto della California. Sempre insieme, sempre con forchetta e chitarra. Qualche testimone ha parlato di strane formule alchemiche, di riti iniziatici ignoti ai più. Altri riferiscono solo di grandi risate, di quelle che fanno bene al cuore.

Braccati dai fan e con un pugno di idee in tasca, i Negrita furono costretti a svelare il proprio segreto:

“Negli ultimi anni la musica è cambiata davvero e noi, oggi come mai, vogliamo cavalcare questo tempo. Via i soliti rituali di composizione, via le jam session, via addirittura le sale prova. Sei musicisti, un furgone lanciato sulle strade del sud ovest americano, dei portatili, un mic e qualche strumento acustico preso a noleggio. Arizona, Nevada, California e il confine col Messico sempre ad uno sputo da noi. Seduti attorno ai tavoli delle cucine che avevamo a disposizione, nelle metropoli come nei deserti, nasce il nostro Kitchen Groove. Tablet e smart phone sempre incandescenti per creare groove, beat ed effetti. Idee, emozioni ed esperimenti come cibo per lo spirito per il nostro nuovo sound. Linguaggi nuovi e antichi che si rincorrono, si intrecciano e si fondono in quel meraviglioso caos ordinato che tra poco avrete modo di ascoltare anche voi. Buon viaggio a tutti.”

Negrita

Non avevamo mai usato un numero come titolo di un album e per evitare il fantomatico “10” ci siamo fermati prima. Forse perché è un multiplo di 3, che è il numero perfetto, come diceva Dante. L’abbiamo scelto anche per non dover trovare un’espressione o una frase che dovesse racchiudere il senso di tutti i brani dell’album, perché sono canzoni che esplodono in tutte le direzioni.
(Pau)

Nessun numero può andare oltre al nove, limite invalicabile a cui ogni individuo si assoggetta nel mondo della materia. I cinesi s’inchinavano nove volte davanti all’imperatore, i vassalli dovevano toccare nove volte il suolo con la fronte davanti ad alcuni popoli africani, Buddha è la nona incarnazione di Vishnu. Per gli ebrei il nove è il simbolo della verità, poiché moltiplicato riproduce sempre se stesso. Chi erano dunque in Negrita alle prese con il nono album della loro carriera?

Nei tre anni precedenti erano stati così tante cose che il rischio era quello di scindersi, di perdere il contatto con la realtà, col mondo, col loro stesso sound. Guardarsi allo specchio senza riconoscersi.

Avevano riempito il Forum di Assago, la Mecca della musica dal vivo in Italia. Radio, TV e giornali se li contendevano, il loro pubblico aveva accettato ogni cambio di rotta, di mentalità ed era pronto a tutto per loro. Erano arrivati, insomma. Ma arrivati dove?

E poi avevano perso anche Frankie, che si era tolto per sempre il camice durante il primo tour semi acustico della loro carriera, l’ennesima sfida con cui si erano presentati ai fan senza filtri, per quelli che erano. Nudi. Una vita senza elettricità era dunque possibile, ma come proseguire senza la sezione ritmica con cui tutto era iniziato? Un prezzo troppo alto per tre amici che, di colpo, si scoprirono disorientati.

In loro aiuto giunsero Guglielmo Ridolfo Gagliano, il “Ghando”, polistrumentista capace di sbalorditivi miracoli elettronici e Jesus Christ Superstar: due figure molto diverse e, per questo, del tutto complementari. Il primo fece capire a Pau, Drigo e Mac quanto il futuro non fosse ancora scritto, mentre il secondo, fattosi nuovamente uomo nella figura di Ted Neeley, che un musical avrebbe potuto portare loro gli stimoli che andavano cercando. Pau si trasformò addirittura in Ponzio Pilato. Prima di lasciarli, Jesus Christ donò loro anche Giacomo Rossetti, giovanissimo e talentuoso bassista, fine umorista, anima affine. Il viaggio poteva così ricominciare. L’album prese quindi vita a Roma, tra una data e l’altra dello spettacolo, poi, con il proverbiale sprezzo del pericolo e la facilità di cadere sempre in piedi che li accomunava ai felini, la nuova formazione si trasferì in Irlanda e lì, tra risate, paranoie e un pizzico di nostalgia per il rock classico, si rimise in Gioco. Ma perché proprio l’Irlanda? Semplice, perché in quei luoghi si ritiene che i gatti abbiano nove vite, due in più che nel resto del mondo. Dannati Negrita, anche quella volta erano riusciti nell’impresa di sopravvivere a se stessi.

Non credere alle favole, ma neanche alla realtà. A tutti quegli scrupoli che non ti fanno vivere. Non perderti mai niente che tenga in vita questo fuoco. Illuditi, convinciti che no, tu non ti brucerai.
(Il Giorno Delle Verità)

Il tour di Helldorado si era trasformato in un trionfo di pubblico e critica, testimoniato da sold out continui e da una band in stato di grazia. Londra, Berlino, Argentina, Spagna e poi ancora gli States, con diversi concerti e l’incredibile avventura del Jack On Tour e del suo road movie: grazie al loro mix di sonorità e anime, i Negrita erano ufficialmente diventati cittadini onorari del mondo.

Una band all’apice, un team ormai super collaudato e un consenso pressoché unanime sembravano il lasciapassare per l’ennesimo successo, tuttavia, la nascita dei nuovi brani fu tutt’altro che serena. Il morale della band che nel 2011 pubblicò Dannato Vivere, infatti, era lontana anni luce da quella che i fan avevano frequentato nell’ultimo lustro.
Che il cielo sopra ai Negrita non fosse più terso come quello di pochi mesi prima, i fan più attenti lo compresero già osservando la nuova copertina, in grado di trasmettere tutto fuorché spensieratezza. Fu però solo con l’uscita di Brucerò Per Te che le cose divennero maledettamente chiare: nella stanza dei Dottori qualcosa non andava e quei sentimenti non potevano che rimanere intrappolati nei solchi di ciò a cui avevano lavorato negli ultimi mesi.

In realtà, Dannato Vivere, lontano dall’essere uno sterile lamento dettato dall’autocommiserazione, sapeva mostrare la consueta scarica di energia, unita alla varietà di registri musicali che i fan avevano imparato a conoscere. La cosa che più colpiva, però, è che questa volta lo faceva in modo più crudo, meno divertito e più sofferto. Anche i brani all’apparenza meno cupi trasmettevano comunque un forte senso di gravità, di peso, di attesa spasmodica di risposte. Era un pugno in faccia alla vita che, di colpo, si era fatta nemica. Se, in Helldorado, l’esortazione era a muoversi, qui l’immobilità aveva preso il sopravvento. Allo stesso tempo, quasi per assurdo, insieme al disincanto, al mondo che aveva smesso di sognare e a tutta una serie di immagini nostalgiche evocate nell’album, quella manciata di brani portava con sé anche i semi della risalita, della voglia di non abbandonarsi, trovando nell’arte stessa la catarsi di cui sentivano il bisogno. Soprattutto, in quel dolore, i Negrita erano sembrati uniti, simbiotici. Ignifughi.

Essere spesso in giro per il mondo, incontrare altri artisti, ci ha suggerito prospettive nuove. Visto da lontano, il nostro favoloso paese risulta oggi piccolo, la scena è culturalmente povera e poco propositiva. Circoscrivere l’interesse al proprio paese è un atteggiamento che non c’interessa più: nasconde il pericolo di provincialismo e chiusura mentale.
(Drigo – Rock Notes)

Se il Sudamerica e L’uomo Sogna Di Volare avevano portato in superficie un lato della loro anima che nemmeno sapevano di possedere, fu solo durante la lavorazione di Helldorado che i Negrita riuscirono ad amalgamare alla perfezione presente e passato musicale, fiati e chitarre, creando quanto di più vicino possibile alla loro reale essenza. La contaminazione divenne finalmente qualcosa da utilizzare con piena consapevolezza, ormai certi che il loro pubblico avesse compreso meglio di chiunque altro la nuova strada intrapresa. Maturo come forse nessuno dei loro dischi precedenti, Helldorado era nato, nemmeno a dirlo, sulla scia delle date argentine e spagnole in compagnia dei Bersuit Vergarabat e, grazie all’utilizzo di un linguaggio che spaziava dall’italiano alle contaminazioni africane, passando per inglese, spagnolo, francese e portoghese, si erse immediatamente non solo a summa degli ultimi tre anni della band, ma di un’intera carriera. Il bisogno di comunicare con l’esterno era lo stesso dei tempi di Radio Zombie, ma questa volta il luogo da cui trasmettere non era più sotterraneo, tutt’al più umido e ricco di vegetazione, ma profondamente vivo. Ai tempi, la speranza era quella di captare segnali di vita, qui il primo obiettivo divenne diffondere gioia. Tornò anche la voglia di provocare gli animi, di scagliarsi contro i costumi di una società che sentivano sempre meno vicina, ma che non si erano ancora rassegnati a veder sprofondare nel baratro. Se già era apparso altamente superficiale fino ad allora, da quell’istante definire i Negrita una semplice rock band divenne qualcosa di simile a liquidare i Clash come meri esponenti di punta del movimento punk. Significava, insomma, snaturarne completamente la proposta, sottovalutarne l’evoluzione solo per assegnare loro una stupida etichetta. In qualche modo, era proprio il fantasma della band di Joe Strummer ad aleggiare sopra le nuove tracce, tanto che qualsiasi brano avessero scelto come singolo non sarebbe riuscito ad essere pienamente rappresentativo di un album che, proprio nell’eterogeneità, vedeva il proprio trait d’union. La canzone di protesta, acerba ma presente fin dagli esordi, toccava qui il proprio apice, così come quella capacità di mischiare sarcasmo, cinismo e voglia di sovvertire le regole che da sempre popolavano i testi della band. Se il mondo era pieno di gente pronta a fotterti con il libro in una mano e la bomba nell’altra, i Negrita, promotori di una rivoluzione sì pacifica, ma non per questo indolore, erano ancora dalla nostra parte. Pronti a farci muovere il culo.

La radice della nostra cifra stilistica era già chiarissima nel primo album, intriso di blues americano, quel blues che ha le sue origini nel Delta del Mississippi. Non sapevamo ancora, tuttavia, di avere ben altre “origini” e che per scoprirle avremmo dovuto fare un viaggio consumatosi innanzitutto dentro di noi.
(Negrita – Verso Sud – Alla Ricerca Del Battito Perfetto)

Col senno di poi, era chiaro che qualche cattiva vibrazione avesse iniziato a segnare la strada dei Negrita durante lo sviluppo di Radio Zombie, ma nessuno avrebbe potuto immaginare che tra il loro quinto album e il successivo sarebbero passati quattro anni. E dire che, fino ai primi mesi del 2003, le cose sembravano essersi messe davvero bene per Pau e compagni: dopo aver girato l’Italia senza sosta, la band aveva trovato il tempo per dedicarsi alla prima raccolta di successi, unita al debutto all’Ariston, cui era seguito il successo senza precedenti di Magnolia. Insomma, i cinque credevano di essere tornati in superficie dopo la discesa negli inferi.

Purtroppo, non era così. “Ragazzi me ne vado”: quelle parole, pronunciate da Zama sembrarono spazzare via tutte le certezze accumulate in dieci anni on the road. Dieci anni per costruire tutto e pochi secondi per abbatterlo: la più classica delle cadute. Fu in quel momento che i Negrita impararono a volare.

Una proposta intrigante per un viaggio in Sudamerica, a suonare, a sporcarsi le mani di allegria in un luogo in cui, un po’ come nella loro musica, conviveva tutto e il contrario di tutto. Un luogo dove non erano ancora stati ma di cui sentivano forti le vibrazioni, il richiamo. Si parte. Santiago, Cordoba, Montevideo, Buenos Aires, Salvador De Bahia, Rio De Janeiro. Povertà, favelas, gioia di vivere, contraddizioni, nuove sonorità. Tutto condensato, tutto di un’intensità mai vissuta. Zama aveva lasciato, ma erano arrivate le percussioni a trasformare per sempre il loro modo di concepire la creazione di un brano, il loro concetto di arte.

Se davvero esistesse una formula del successo, probabilmente i Negrita l’avevano trovata ai tempi di Reset, ma fu solo con L’Uomo Sogna Di Volare che, dopo aver perso affetti e certezze, la band trovò davvero se stessa. Erano partiti da quel nome, dagli Stones, avevano attraversato il Mississippi, la California, Seattle ed erano approdati in Sudamerica, scoprendo che quei luoghi li rappresentavano come pochissimi altri, che lì risiedeva il suono Negrita. Capirono di colpo di poter parlare di ogni argomento, dal più futile al più profondo, arrangiando i propri brani seguendo i dettami del rock o della world music, ma con la consapevolezza che fosse il modo in cui lo facevano a fare la differenza. L’inizio fu lento ma, come ama ricordare Drigo, il primo uomo che provò a volare finì a pezzi sul pavimento. Sdegno e risate. Poco più tardi l’uomo volava.

Dopo un po’ di avvicendamenti, alla batteria si sedette l’amico Cristiano Dalla Pellegrina, Rotolando Verso Sud divenne una dichiarazione d’intenti e i Negrita decisero di non tornare più sulla terra ferma. Fantasia al potere? Volere è potere? No, volare è potere.