DISCHI

Desert Yacht Club

(Universal Music 2018)

Disponibile su CD, LP e Digital:

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Le radici sono importanti, nella vita di un uomo, ma noi uomini abbiamo le gambe, non le radici, e le gambe sono fatte per andare altrove.
(Pino Cacucci)

Nell’immaginario collettivo, da sempre, il viaggio è sinonimo di libertà. Quella libertà che rende alcuni uomini, in genere dei visionari, qualcosa di diverso dalla media di chi li circonda. Pur avendo mantenuto, spesso contro le logiche di mercato, un legame indissolubile con le proprie terre, i Negrita hanno fatto del cosmopolitismo uno dei propri tratti distintivi, qualcosa di fortemente simbolico, ma che nella pratica si è sempre trasformato in album che hanno segnato il panorama musicale italiano degli ultimi venticinque anni. Desert Yacht Club, in questo senso, è il più classico degli album dei Negrita.Talvolta, ai Negrita, piace far perdere le proprie tracce e, quando succede, chi li conosce davvero sa che qualcosa di importante bolle in pentola.

Erano stati fotografati con la Union Jack in pub malfamati di Camden Town, in kimono fra i tavoli di Tokyo che avevano visto passare generazioni di samurai e, infine, accampati nel deserto della California. Sempre insieme, sempre intorno ad una grande tavola, con tecnologia e chitarre. Qualche testimone aveva parlato di strane formule alchemiche, di riti iniziatici ignoti ai più. Altri riferivano solo di grandi risate, di quelle che fanno bene al cuore.

Quasi a chiudere un cerchio iniziato molti anni prima, era forse inevitabile che il punto d’arrivo del loro peregrinare, questa volta, dovesse essere la California. È proprio da quei luoghi che proveniva la maggior parte dei riferimenti culturali della loro adolescenza ed è proprio qui, tra le dune di Joshua Tree, che è nato Desert Yacht Club. Non un semplice titolo, seppur altamente evocativo, ma un vero e proprio omaggio ad un luogo reale d’ispirazione: l’omonima oasi creativa fondata dall’artista napoletano Alessandro Giuliano, lontana da tutto come una base di Marte, ma suggestiva, libera, estrema e autosufficiente, all’interno della quale la band ha partorito alcune delle idee principali del nuovo progetto.

È da qui, poi, che ha preso forma il concetto di Kitchen Groove. Un “metodo di lavoro senza studio di registrazione”, basato su un set up minimale ed esportabile ovunque, in grado di far fluire l’ispirazione senza filtri, senza classici preparativi o limiti di tempo. Il gusto di sedersi intorno ad una tavola più o meno domestica con un gruppo di amici, lasciando che la musica, scevra da preconcetti o pregiudizi di sorta, sorga spontaneamente: “Negli ultimi anni la musica è cambiata davvero e oggi come mai, vogliamo interpretarla a modo nostro” – dichiara la band – “Via i soliti rituali di composizione, via addirittura le sale prova. Sei musicisti e il loro produttore, un furgone lanciato sulle strade del sud ovest americano, dei portatili, un microfono e tre chitarre prese a noleggio. Arizona, Nevada, California e il confine col Messico sempre ad uno sputo da noi. Seduti attorno ai tavoli da pranzo che avevamo a disposizione, nelle metropoli come nei deserti, nasce il nostro Kitchen Groove. Tablet e smart phone sempre incandescenti per creare groove, beat ed effetti. Strumenti a corda che passano di mano in mano fra i sedili di un van. Idee, emozioni ed esperimenti come cibo per lo spirito per il nostro nuovo sound. Linguaggi nuovi e classici che si rincorrono, si intrecciano e si fondono in quel meraviglioso panorama in movimento che tra poco avrete modo di ascoltare anche voi”.

Ecco la rivoluzione di Desert Yacht Club: non serve uno studio di registrazione al passo coi tempi, non servono strumenti da migliaia di dollari, basta raggrupparsi a cielo aperto intorno alla stessa tavola e tutto prende forma senza bisogno di trucchi. L’istinto che vince sulla ragione, il viaggio che vince sulla routine, con tutti i vibranti stimoli che puoi fotografare in musica come in un’istantanea.

Quello che ne è nato è un album di rottura, che, pur mantenendo un doppio legame con la storia del gruppo, guarda al passato senza nostalgia e al futuro con la giusta arroganza, mostrando grande freschezza compositiva e nessuna derivazione. Un album catartico, nato da un momento difficile ma conclusosi con una fortissima carica positiva.

In numerologia, il 10 è considerato il numero perfetto, in quanto riunisce in una nuova unità tutti i principi espressi nei numeri dall’uno al nove. Per questo motivo è anche denominato Cielo, ad indicare sia la perfezione che il dissolvimento di tutte le cose. La perfezione relativa allo spazio-tempo, ma anche il cambiamento che permette all’iniziato di evolvere, di crescere e di elevarsi spiritualmente.

Non è dunque un caso che il decimo album della band aretina sia probabilmente il più autobiografico della propria carriera, rappresentando tuttavia, allo stesso tempo, un vero e proprio nuovo inizio. Un nuovo corso fatto di voglia di rischiare, di continuare a mettersi in gioco, di sperimentare nuove sonorità, ma sempre al servizio di un messaggio chiaro, talvolta disilluso, ma fortemente legato al nostro tempo. Un pugno in faccia a chi crede che niente debba mai cambiare (perché l’abitudine è comoda e rassicurante), un’idea di evoluzione, con la classica voglia di provocare. Una dichiarazione di libertà, un’attitudine lontana da qualsiasi forma di nostalgia, pur mantenendo un evidente filo conduttore con il proprio gusto e la propria formazione. Nuovo viaggio, nuove esperienze, nuovo sound, proprio come insegna la storia dei Negrita.

Insomma, loro sono ancora qua, ma non li prenderete mai.

Track by track

1. Siamo ancora qua
“Può essere vista come la Ehi! Negrita 2.0. Quella era una sorta di manifesto con cui esprimere la nostra voglia di comparire sulle scene, di conquistare l’Italia quando nessuno ci conosceva, mentre ora, dopo nove album, si aggiungono le persone, l’immaginario che abbiamo creato. Il nostro popolo, insomma.”

2. No problem
“Il primo testo del disco. Quando arrivi a un certo punto della tua carriera, finisci per chiederti: ma chi siamo oggi? Dopo dieci album, come ci dobbiamo ridimensionare rispetto al tempo che è passato? Di cosa dobbiamo parlare e di cosa è giusto farlo? Un brano che parla di problemi di scrittura, dichiarando però l’esatto contrario.”

3. Scritto sulla pelle
“Sulla nostra pelle, esternamente o internamente, la vita lascia tracce indelebili, che possono essere non volute, come le cicatrici, o scelte, come i tatuaggi. Oppure semplicemente psichiche. Tutte le esperienze di vita s’imprimono su di noi e vanno manifestate come se fossero un diario di bordo di un’esistenza, che deve essere valorizzato e non nascosto come un difetto.”

4. Non torneranno più
“È un brano che si rivolge alla nostra generazione e vuole elevare il rimpianto a qualcosa di nobile, anche se solo per un giorno. Solitamente, si pensa alla nostalgia e al romanticismo come a sentimenti più elevati rispetto al rimpianto, quindi abbiamo voluto creare una parentesi che durasse un solo giorno, in cui concederci il tempo per raccontare un pezzo di vita legato alla gioventù, a ciò che non può più tornare, agli amici che non si sono più.”

5. Voglio stare bene
“Un pezzo dal beat nero, quasi gospel, in cui abbiamo inserito una ritmica che ricordasse proprio l’andamento drammatico dei neri incatenati. Forse proprio per questo, il testo è stato in qualche modo liberatorio, perché abbiamo cercato di raccontare un’esigenza primaria come quella del voler stare bene, appunto.”

6. La rivoluzione è avere vent’anni
“L’altra faccia della medaglia di Non Torneranno Più, solo che qui non ci rivolgiamo ai nostri coetanei, ma alle nuove generazioni, ai nostri figli, analizzando le storture e le paure che ci attanagliano come padri. Il ponte, cantato in inglese, è una frase di Gandhi che ci sembrava perfetta in questo contesto.”

7. Milano stanotte
“È il primo spunto che abbiamo creato prima di partire per America e l’ultimo ad essere completato. Richiama la scuola francese degli anni ottanta e novanta, con un’alma latina. È un omaggio sentito a una città che non è la nostra, un luogo che ci ha adottato quasi subito e riassume più puntate vissute a Milano. Ha una doppia anima: è un modo per descrivere la città e i suoi cambiamenti, ma anche la sua movida.”

8. Ho scelto te
“Istintivo, nato in pochissimo tempo. Dettato dalle emozioni del momento che stavamo vivendo, che si è scritto quasi da solo, con le mani quasi indipendenti dalla testa. Sono impressioni, cose che la musica ci ha suggerito con estrema semplicità. Nato da un processo compositivo che non abbiamo mai frequentato molto.”

9. Adios paranoia
“Dobbiamo ringraziare Adios Paranoia, perché rappresenta l’uscita dal momento più difficile che ci siamo trovati a vivere in carriera. L’America doveva rappresentare la redenzione risolutiva per delle cose davvero pesanti che ci portavamo dietro dall’Italia e la catarsi del deserto ha fatto sì che nascesse questo brano. Non a caso vicino al Messico, che da luogo di fuga per antonomasia si è trasformato in una nuova occasione per fare festa insieme.”

10. Talkin’ To You
“Nata una notte a San Diego. Qualcuno di noi è rimasto sveglio e ha tirato fuori un riff con un’anima puttanamente blues, ma con degli inserti elettro e delle soluzioni armoniche diverse per i due ritornelli. Il testo cerca di descrivere le cose che ti circondando che ti danno fastidio, ma in modo propositivo, cercando di innescare un dialogo con chi hai di fronte e con un bell’inserto in barre del rapper Ensi.”

11. Aspettando l’alba
“Cantata da Drigo e divisa in due, tanto musicalmente che emotivamente. Parte con un tempo vuoto, che si evolve poi in una parte elettrica, all’interno della quale convivono anche sfumature flamenche e samba. Scritta per l’emergenza di elaborare e dare un senso all’addio nei confronti delle persone che si sono amate. Un pensiero per chi si sta vivendo un addio.”