-3 to KitchenGroove

Highway to Helldorado

Essere spesso in giro per il mondo, incontrare altri artisti, ci ha suggerito prospettive nuove. Visto da lontano, il nostro favoloso paese risulta oggi piccolo, la scena è culturalmente povera e poco propositiva. Circoscrivere l’interesse al proprio paese è un atteggiamento che non c’interessa più: nasconde il pericolo di provincialismo e chiusura mentale.
(Drigo – Rock Notes)

Se il Sudamerica e L’uomo Sogna Di Volare avevano portato in superficie un lato della loro anima che nemmeno sapevano di possedere, fu solo durante la lavorazione di Helldorado che i Negrita riuscirono ad amalgamare alla perfezione presente e passato musicale, fiati e chitarre, creando quanto di più vicino possibile alla loro reale essenza. La contaminazione divenne finalmente qualcosa da utilizzare con piena consapevolezza, ormai certi che il loro pubblico avesse compreso meglio di chiunque altro la nuova strada intrapresa. Maturo come forse nessuno dei loro dischi precedenti, Helldorado era nato, nemmeno a dirlo, sulla scia delle date argentine e spagnole in compagnia dei Bersuit Vergarabat e, grazie all’utilizzo di un linguaggio che spaziava dall’italiano alle contaminazioni africane, passando per inglese, spagnolo, francese e portoghese, si erse immediatamente non solo a summa degli ultimi tre anni della band, ma di un’intera carriera. Il bisogno di comunicare con l’esterno era lo stesso dei tempi di Radio Zombie, ma questa volta il luogo da cui trasmettere non era più sotterraneo, tutt’al più umido e ricco di vegetazione, ma profondamente vivo. Ai tempi, la speranza era quella di captare segnali di vita, qui il primo obiettivo divenne diffondere gioia. Tornò anche la voglia di provocare gli animi, di scagliarsi contro i costumi di una società che sentivano sempre meno vicina, ma che non si erano ancora rassegnati a veder sprofondare nel baratro. Se già era apparso altamente superficiale fino ad allora, da quell’istante definire i Negrita una semplice rock band divenne qualcosa di simile a liquidare i Clash come meri esponenti di punta del movimento punk. Significava, insomma, snaturarne completamente la proposta, sottovalutarne l’evoluzione solo per assegnare loro una stupida etichetta. In qualche modo, era proprio il fantasma della band di Joe Strummer ad aleggiare sopra le nuove tracce, tanto che qualsiasi brano avessero scelto come singolo non sarebbe riuscito ad essere pienamente rappresentativo di un album che, proprio nell’eterogeneità, vedeva il proprio trait d’union. La canzone di protesta, acerba ma presente fin dagli esordi, toccava qui il proprio apice, così come quella capacità di mischiare sarcasmo, cinismo e voglia di sovvertire le regole che da sempre popolavano i testi della band. Se il mondo era pieno di gente pronta a fotterti con il libro in una mano e la bomba nell’altra, i Negrita, promotori di una rivoluzione sì pacifica, ma non per questo indolore, erano ancora dalla nostra parte. Pronti a farci muovere il culo.

foto di Alessio Pizzicannella - foto live di Giansi Campagnoli